Cronenberg in uno dei suoi film parla di un
“seme della violenza” che sarebbe inestricabilmente radicato nell’anima
della cultura americana.
Quella cultura edificata sull’usuparzione
delle terre, sulla colonizzazione più spregiudicata, sui miti
dell’efficienza e dell’utilitarismo conditi in buona parte dalla salsa
acida del calvinismo più rigido e spietato, quello secondo il quale il
successo nella vita è sintomo ineludibile di Grazia, mentre la
disgrazia, la povertà, la malattia sono le stimmate della perdizione, i
segni evidenti di una predeterminazione senza appello.
Il concetto di Stato assistenziale non
esiste nella cultura americana, l’homeless, lo storpio, chi perde il
lavoro, chi non ha i soldi per pagarsi l’assicurazione sulla salute, chi
cade in disgrazia è il marchiato a vista che merita di essere
allontanato dalla comunità, così come lo “strano”, il “diverso”, colui
che la domenica non partecipa del rito del “barbecue” in giardino con
allegra famigliola al seguito è qualcuno dal quale è meglio stare alla
larga.
La difesa della proprietà privata - che
tradotta in gergo calvinista è il premio del duro lavoro, l’evidenza
della grazia ricevuta espletata attraverso la faticosa conquista di ogni
millimetro di terreno e di ogni aspetto della natura (animali compresi)
il cui unico scopo è quello di essere “sfruttata e custodita” dall’uomo
per realizzare il regno di Dio in terra - finanche con la propria
vita, o… come accade molto più spesso, a discapito di quella altrui, è
il simbolo di un accanimento nel voler a tutti i costi mantenere e
proteggere un risultato il cui valore, più è difeso con i denti e più
rimane dubbio agli occhi del resto del mondo.
La verità è che la storia degli Stati Uniti
comincia sotto il segno di una violenza e di uno sterminio (quello
degli Indiani d’America) e prosegue con una politica aggressiva e di
sopraffazione finalizzata all’estensione dei propri domini economici,
politici, culturali. Nato in un paese dalla radici così profondamente
contaminate ogni Americano, come suggerisce l’amara parabola di Tom
Stall/Viggo Mortensen (Hidalgo), porterà nel corpo i segni ineludibili
della violenza. Una violenza dalla quale ci si può riscattare e
discostare - o che si può camuffare, rimuovere, finanche legittimare,
certo - ma di cui resterà sempre una traccia, come cicatrice indelebile,
sotto la pelle: una malattia in limine, incubata, pronta a manifestarsi alla prima occasione di minaccia delle proprie difese immunitarie.
Il diverso, il povero, l’immigrato è
l’elemento estraneo che deve essere assorbito dal sistema oppure
espulso, come un virus malefico. Ma quel che gli Americani non hanno
capito è che loro stessi sono portatori di quel virus della violenza dal
quale cercano ad ogni modo di difendersi.
Sogno da una vita di fare un viaggio negli
States, uno di quelli in auto lungo quelle strade lunghissime che
tagliano le vaste praterie, ma il pensiero di potermi trovare un giorno
nel posto sbagliato al momento sbagliato in uno stato in cui vige la
pena di morte sinceramente mi atterrisce. Il segno della grazia divina
non è tanto visibile sulla mia fronte, piuttosto ho lo stigma di chi
pende dalla parte di tutti i diseredati, gli oppressi, gli indifesi del
mondo; e non perché io lo sia, ma perché è lì che scelgo di stare ogni
giorno.
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