martedì 2 ottobre 2012

Il Mito Americano e il “Seme della Violenza”

Cronenberg in uno dei suoi film parla di un “seme della violenza” che sarebbe inestricabilmente radicato nell’anima della cultura americana.

Quella cultura edificata sull’usuparzione delle terre, sulla colonizzazione più spregiudicata, sui miti dell’efficienza e dell’utilitarismo conditi in buona parte dalla salsa acida del calvinismo più rigido e spietato, quello secondo il quale il successo nella vita è sintomo ineludibile di Grazia, mentre la disgrazia, la povertà, la malattia sono le stimmate della perdizione, i segni evidenti di una predeterminazione senza appello.

Il concetto di Stato assistenziale non esiste nella cultura americana, l’homeless, lo storpio, chi perde il lavoro, chi non ha i soldi per pagarsi l’assicurazione sulla salute, chi cade in disgrazia è il marchiato a vista che merita di essere allontanato dalla comunità, così come lo “strano”, il “diverso”, colui che la domenica non partecipa del rito del “barbecue” in giardino con allegra famigliola al seguito è qualcuno dal quale è meglio stare alla larga.

La difesa della proprietà privata - che tradotta in gergo calvinista è il premio del duro lavoro, l’evidenza della grazia ricevuta espletata attraverso la faticosa conquista di ogni millimetro di terreno e di ogni aspetto della natura (animali compresi) il cui unico scopo è quello di essere “sfruttata e custodita” dall’uomo per realizzare il regno di Dio in terra  - finanche con la propria vita, o… come accade molto più spesso, a discapito di quella altrui, è il simbolo di un accanimento nel voler a tutti i costi mantenere e proteggere un risultato il cui valore, più è difeso con i denti e più rimane dubbio agli occhi del resto del mondo.

La verità è che la storia degli Stati Uniti comincia sotto il segno di una violenza e di uno sterminio (quello degli Indiani d’America) e prosegue con una politica aggressiva e di sopraffazione finalizzata all’estensione dei propri domini economici, politici, culturali. Nato in un paese dalla radici così profondamente contaminate ogni Americano, come suggerisce l’amara parabola di Tom Stall/Viggo Mortensen (Hidalgo), porterà nel corpo i segni ineludibili della violenza. Una violenza dalla quale ci si può riscattare e discostare - o che si può camuffare, rimuovere, finanche legittimare, certo - ma di cui resterà sempre una traccia, come cicatrice indelebile, sotto la pelle: una malattia in limine, incubata, pronta a manifestarsi alla prima occasione di minaccia delle proprie difese immunitarie.

Il diverso, il povero, l’immigrato è l’elemento estraneo che deve essere assorbito dal sistema oppure espulso, come un virus malefico. Ma quel che gli Americani non hanno capito è che loro stessi sono portatori di quel virus della violenza dal quale cercano ad ogni modo di difendersi.

Sogno da una vita di fare un viaggio negli States, uno di quelli in auto lungo quelle strade lunghissime che tagliano le vaste praterie, ma il pensiero di potermi trovare un giorno nel posto sbagliato al momento sbagliato in uno stato in cui vige la pena di morte sinceramente mi atterrisce. Il segno della grazia divina non è tanto visibile sulla mia fronte, piuttosto ho lo stigma di chi pende dalla parte di tutti i diseredati, gli oppressi, gli indifesi del mondo; e non perché io lo sia, ma perché è lì che scelgo di stare ogni giorno.

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