venerdì 19 ottobre 2012

Il miglior fantasy è scritto nella lingua dei sogni.

È vivo, come sono vivi i sogni, più reale della realtà – per un momento, almeno…quel lungo magico momento prima di aprire gli occhi e alzarci.

Il fantasy è argentato e scarlatto, indaco e azzurro, ossidiana con venature dorate e lapislazzulo. La realtà è di linoleum e plastica, fatta di marroni fango e verde oliva. Il fantasy ha il sapore di peperoncini e miele, cannella e chiodi di garofano e vino dolce come l’estate. La realtà sa di cenere alla fine. La realtà è fatta di gelidi centri commerciali a Burbank, di camini a Cleveland, un parcheggio a Newark. Il fantasy è le torri di Minas Tirith, le antiche pietre di Gormenghast, le sale di Camelot. Il fantasy vola sulle ali di Icaro, la realtà sulla Southwest Airlines. Perché i sogni diventano tanto più piccoli quando finalmente diventano veri?

Leggiamo il fantasy per ritrovare i colori, credo. Per assaggiare forti spezie e ascoltare il canto delle sirene. C’è qualcosa di antico e vero nel fantsy che parla a qualcosa di profondo dentro di noi, al bambino che sognava quel giorno in cui avrebbe cacciato di notte per le foreste, e avrebbe festeggiato in colline cave, e trovato un amore che sarebbe durato per sempre in qualche luogo a sud di Oz e a nord di Shangri-La.

Possono tenersi il loro paradiso. Quando morirò, voglio andare nella terra di Mezzo.

-George R. R. Martin

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